Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Penalista Trapani

Sentenza

Il divieto della reformatio in peius nel mirino della magistratura di Giorgio Spangher
Il divieto della reformatio in peius nel mirino della magistratura di Giorgio Spangher
Reformatio in pejus
Anche i soggetti processuali titolari di poteri nella dialettica sulla giustizia penale spesso individuano gli obiettivi che intendono perseguire per modellare i percorsi processuali individuando, da parte dei magistrati le criticità che emergono dall'applicazione concreta delle norme e da parte degli avvocati gli strumenti a volte tesi al rafforzamento delle garanzie, a volte orientati a resistere ai possibili cambiamenti che possono mettere in discussione i diritti spesso duramente conquistati.
Così, senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo per fare qualche riferimento concreto, si può ricordare l'eliminazione da parte del legislatore sollecitato dalla magistratura della possibilità per l'imputato di presentare personalmente il ricorso per cassazione, stante l'elevato numero di impugnazioni inammissibili e da parte degli avvocati, i tempi dell'iscrizione nel registro degli imputati nonché i tempi morti per il deposito degli atti ex art. 415-bis c.p.p. e per l'esercizio dell'azione penale, a indagini esaurite.
Focalizzando il discorso sugli obiettivi prossimi per quanto attiene alla avvocatura si può fare riferimento alla separazione delle carriere ed all'esclusione ad appellare le sentenze di proscioglimento da parte del p.m.
Per quanto attiene alla magistratura, dopo aver messo da tempo nel mirino, come si è visto, la tematica del mutamento della composizione del collegio, nell'alternarsi di iniziative atte a modificare l'art. 525, comma 2, c.p.p. tra sezioni unite e ipotesi riformatrici, che sono ancora in cerca di assestamento, prospettandosi ulteriori riflessioni sul punto, il tema delle impugnazioni e dell'appello, in particolare, è sempre all'ordine del giorno.
Ritenendo che possa imputarsi alle impugnazioni la lesione della durata ragionevole del processo, si è a più riprese intervenuti sul punto con varie modifiche che introducendo filtri e oneri a carico dei soggetti legittimati ne hanno limitato la portata.

 

Invero, si dimentica, spesso, che il giudizio d'appello in se, tranne casi eccezionali dura poco, e che la questione attiene piuttosto – con significative variabili da sede a sede che ne rafforzano l'assunto - all'organizzazione degli uffici, dagli apparati amministrativi, dagli organici, dal numero dei procedimenti nei vari distretti.

 

L'obiettivo prossimo che sotto traccia sta emergendo - ancorché sempre presente in molte prese di posizione ed iniziative dell'ANM e di singoli magistrati - è costituito dall'eliminazione del divieto della reformatio in peius.

 

Com'è noto, quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l'imputato per una causa meno favorevole, né revocare benefici, salva la facoltà, entro i limiti indicati al comma 1 (id est: il giudizio sui punti a cui si riferiscono i motivi) di dare al fatto una definizione giudice più grave (id est: prima della riforma della prescrizione, escludendo l'estinzione del reato) purché non venga  superata la competenza del giudice di primo grado.

 

In ogni caso, al di là delle petizioni di principio, variamente giustificate e sostenute, le modifiche suggerite sono, anzi dovrebbero, trovare adeguati supporti argomentativi di natura giuridica, ancorché confutabili.

 

E' successo per quanto attiene all'immediatezza che, ritenuta lesione del contraddittorio, non escludeva il recupero del materiale dichiarativo assunto da altro giudice (artt. 238 e 392 c.p.p.), senza contare appunto che quell'atto era già inserito nel fascicolo del dibattimento.

 

Com'è noto, nella visione autoritaria del codice del 1930, il Guardasigilli dell'epoca già si prefiggeva l'obiettivo di escludere il divieto della reformatio in peius, ritenendo che esso tutelasse gli assassini e i delinquenti e che le parti private non potessero limitare i poteri di cognizione e tanto meno quelli decisori del giudice.

 

Com'è noto, per ridimensionare gli effetti del divieto della reformatio in peius, il Guardasigilli introdusse l'appello incidentale del p.m. Le vicende successive sono note: declaratoria di incostituzionalità dell'appello incidentale con la sentenza n. 177 del 1972; reintroduzione con diversa prospettazione sistematica con il codice del 1988; eliminazione con il d.lgs. n. 11/2018.

 

Come anticipato, il tema nei dibattiti sul processo penale viene sistematicamente ripreso. Vi sono stati anche tentativi da parte degli uffici legislativi del Ministero di prospettare una ipotesi di riforma in tale direzione.

 

Da ultimo, le argomentazioni tese a eliminare il divieto sono state alimentate da alcune riforme introdotte dal d.lgs. n. 150/2022. In particolare, si è argomentato sulla base delle nuove previsioni del procedimento per decreto e del giudizio abbreviato.

 

All'art. 460, comma 1, lett. h-ter, c.p.p. si prevede che può essere effettuato il pagamento della pena pecuniaria ridotto di un quinto, nel termine di quindici giorni nella notificazione del decreto con rinuncia all'apposizione; e all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., si dispone che quando né l'imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna (del rito abbreviato), le pene inflitte sono ulteriormente ridotte di un quinto dal giudice dell'esecuzione.

 

Si è conseguentemente argomentato che nell'eventualità l'imputato non si intenda avvalersi della premialità offerta dalla mancata impugnazione ovvero dalla rinuncia a proporre opposizione, intendendo – quindi richiedere un nuovo giudizio – appare corretto ritenere che si espanda il potere decisorio del giudice. Invero questo trova già un preciso riferimento nel procedimento per decreto il quale è estraneo al tema del divieto della reformatio in peius.

 

Invero, si tratta di una opposizione e non di appello, nonché – com'è noto – va evidenziato che il decreto – validamente opposto – viene revocato, mancando quindi ogni possibilità di farvi riferimento.

 

Paradossalmente, tuttavia, sono proprio queste affermazioni a giustificare in qualche modo il divieto che attiene solo alla pena, senza intaccare i poteri ufficiosi in favor riconosciuti comunque al giudice dell'appello.

 

Se il quantum della pena è così poco significativo da essere barattato  con la rinuncia al giudizio di controllo, non si capisce perché il limite definito in primo grado non possa essere mantenuto nella sua qualità e quantità.

 

Del resto rispetto al procedimento per decreto la questione si prospetta in termini diversi nel giudizio d'appello dove il giudizio attiene al controllo sul provvedimento impugnato che può essere riformato o confermato. Va tenuto conto altresì, ancora a differenza del decreto penale, che per l'appello c'è la specificità dei motivi e che a differenza del decreto l'appello è conferito anche all'accusa, la cui iniziativa pure in caso di conversione del ricorso, paralizza il divieto de quo.

 

A prescindere dal fatto che sotto il profilo normativo il meccanismo si è progressivamente rafforzato ed ha visto estendersi il suo raggio applicativo con nuovi contenuti preclusi all'aggravamento, va sottolineata la motivazione e la giustificazione che ne sostanzia la presenza.

 

Invero, a fondamento del divieto va collocata la tutela del diritto di difesa, ritenuto prevalente sull'esigenza di assicurare la garanzia di libertà personale che potrebbe essere pregiudicata rimettendo il giudice nella pienezza dei suoi poteri.

 

Non è mancato, peraltro, anche chi ha ritenuto che il divieto è soltanto una estrinsecazione rafforzata dei limiti, da nessuno messi in discussione, ai poteri di cognizione del giudice.

 

Va altresì sottolineato che la mancanza del divieto potrebbe indurre il soggetto a non richiedere un nuovo accertamento e ciò precluderebbe anche la possibilità per la società di veder accertata la verità processuale dei fatti in giudizio, configurandosi cioè l'iniziativa dell'imputato (e del suo difensore) quale unico soggetto – assieme al p.m. – capace di far proseguire la vicenda processuale e quindi l'applicazione della legge.

 

Invero, nessuno può assicurare che la prima sentenza sia più giusta della seconda ovvero che la seconda sia migliore della prima, ma conferendo alle parti il potere di sollecitare una nuova decisione, si ipotizza che l'esito processuale (a prescindere dall'entità della pena, comunque legale) possa essere più aderente ai fatti e quindi alla verità, con tutti i limiti che l'accertamento giudiziario porta con sé.


da il penalista (Giuffrè)
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza