Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10/03/2022) 10-05-2022, n. 18481
Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10/03/2022) 10-05-2022, n. 18481
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente -
Dott. COSTANZO Angelo - Consigliere -
Dott. CALVANESE Ersilia - rel. Consigliere -
Dott. SILVESTRI Piero - Consigliere -
Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1. C.E., nato a (OMISSIS);
e dalla parte civile:
2. P.S., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 22/09/2021 della Corte di appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. VENEGONI Andrea, che ha concluso chiedendo che il ricorso della parte civile sia dichiarato inammissibile e quello dell'imputato rigettato;
udita la parte civile, avv. Elisabetta Carfora, in sostituzione dell'avv. Carlo De Stavola, che ha concluso insistendo per l'accoglimento del proprio ricorso e riportandosi alle conclusioni, depositate con la nota spese;
uditi i difensori, avv. Andrea Castaldo e avv. Gaetano Pastore, che hanno concluso chiedendo che sia accolto il ricorso proposto dall'imputato.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Napoli riformava sull'appello del P.M. e della parte civile, la sentenza del Tribunale di Napoli del 14 dicembre 2018, che aveva assolto l'imputato C.E. perchè il fatto non sussiste dal reato di cui agli artt. 81 e 317 c.p..
In particolare, la Corte di appello, riqualificati i fatti ai sensi degli artt. 81, 56, 610 e 610 c.p., art. 61 c.p., n. 9, condannava l'imputato alla pena di anni due di reclusione e al risarcimento del danno in favore della parte civile.
All'imputato era stato contestato di aver, quale consigliere per la sanità del Presidente della Regione Campania, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco ad indurre P.S., Ca.Pa. e I.A. a rassegnare le dimissioni dai loro rispettivi incarichi di commissari straordinari delle ASL (OMISSIS), AORN (OMISSIS) e ASL (OMISSIS), evento che solo per i primi due non si verificava a causa del loro rifiuto.
2. In primo grado, l'imputato era stato assolto ex art. 129 c.p.p., per la mancanza della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale, posto che la figura di "consigliere" del Presidente della giunta regionale non attribuiva al medesimo alcun potere amministrativo, nè in tale qualità concorreva alla formazione o espletamento di un siffatto potere.
In sede di appello, la Corte territoriale riteneva discutibile la contestazione dei fatti in termini di concussione (stante la mancanza di un'utilità promessa o data dalle persone offese), che, a suo avviso, andavano invece inquadrati nel fuoco della fattispecie della violenza privata di cui all'art. 610 c.p., avendo l'imputato, facendosi portavoce della volontà dichiaratamente politica del suo dominus di sostituire i tre commissari scelti dalla precedente giunta e non più graditi al nuovo schieramento, fatto ricorso alla minaccia affinchè costoro si dimettessero (reato consumato solo per I. e commesso in forma tentata per le restanti persone offese).
La Corte di appello precisava, quanto alla minaccia, che non veniva in discussione la piena discrezionalità dell'autorità politica di nominare e revocare i commissari straordinari, atteso il carattere fiduciario del loro incarico, ma soltanto la condotta dell'imputato funzionale ad intimidire le tre persone offese, servendosi di toni lesivi della loro professionalità ("tu stai qui per caso") e prospettando conseguenze negative nel caso in cui non avessero accettato di dimettersi (quali accertamenti strumentali e contenziosi legali in ordine al loro rapporto di lavoro). Conseguenze che si erano poi verificate (per I. erano stati attivati i controlli di gestione e per P. erano giunti i provvedimenti minacciati di sospensione e di revoca).
Infine, la Corte di appello riteneva sussistente l'aggravante di cui all'art. 61, n. 9 c.p., posto che all'imputato erano stati affidati compiti di consulenza di natura non meramente privata ed esclusivamente consultiva.
2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato e la parte civile P.S., denunciando, a mezzo dei rispettivi difensori, i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con atto a firma dell'avv. Gaetano Pastore, l'imputato ha dedotto:
2.1.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 610 c.p., per carenza della minaccia.
La condotta ascritta all'imputato è consistita al più nella sollecitazione delle dimissioni dei commissari straordinari, in vista della necessità di ricoprire la nomina dei direttori generali, prospettando l'esercizio di un diritto, ovvero l'apertura di un contenzioso, stante l'indiscusso diritto (spoil system) della giunta di nomina dei vertici del Servizio sanitario regionale (come in realtà poi avvenuto; il Tar ha tra l'altro respinto il ricorso del P.).
Resta irrilevante il tono scortese con il quale tale prospettazione è stata veicolata.
2.1.2. Violazione di legge, mancata assunzione di prova decisiva e vizio di motivazione in relazione agli artt. 603, 190 e 495 c.p.p..
Sono da considerarsi "prove nuove" che il giudice di appello era tenuto ad assumere ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 2, anche quelle ammesse e non acquisite in primo grado, alla cui ammissione le parti hanno diritto, anche se nella specie non appellanti, purchè non dichiarate manifestamente irrilevanti o superflue.
Erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che incombesse sull'imputato l'onere di dimostrarne l'indispensabilità ai fini della decisione, come se si trattasse di richiesta formulata ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 1. Era invece compito del giudice verificare soltanto la non manifesta irrilevanza della prova.
2.1.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 81 e 133 c.p..
La pena risulta sproporzionata rispetto alla condotta in concreto tenuta dall'imputato e tale scelta risulta immotivata.
2.2. Con atto a firma dell'avv. Andrea Castaldo, l'imputato ha altresì dedotto: 2.2.1. Violazione di legge in relazione all'art. 610 c.p..
Difetterebbe sia la minaccia di un male ingiusto, posto che l'incarico dei commissari era intuitu personae e a carattere fiduciario, ben potendo pertanto essere revocato discrezionalmente (spoil system); sia la costrizione della volontà della vittima, stante i toni contenuti usati, il contesto ambientale e il ruolo e la natura del soggetto passivo.
La prospettazione di instaurare un contenzioso per la revoca dell'incarico fiduciario non costituiva una illecita intimidazione, posto che le dimissioni avrebbero soltanto anticipato un risultato scontato (la revoca dell'incarico).
2.2.2. Violazione di legge in relazione agli artt. 190, 95 e 603 c.p.p., Censurabile è la decisione di non rinnovare l'istruttoria dibattimentale.
La sentenza si rivela sbilanciata a senso unico, avendo valutato soltanto le prove dell'accusa.
2.2.3. Violazione di legge in relazione all'art. 521 c.p.p..
La condotta contestata era descritta nell'imputazione come "induzione" mediante "invito" a rassegnare le dimissioni e non in termini, come ritenuto dalla Corte di appello, di "intimidazione".
2.2.4. Violazione di legge in relazione all'art. 357 c.p..
Erronea è la qualificazione soggettiva dell'imputato quale pubblico ufficiale. 2.2.5. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 62 bis e 133 c.p..
Criticabile è la decisione di negare all'imputato le attenuanti generiche.
2.3. Nell'interesse della parte civile P.S., l'avv. Carlo De Stavola ha dedotto:
2.3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 56 e 317 c.p..
Sussiste l'interesse della parte civile ad una diversa e più grave qualificazione del fatto, in considerazione della diversa quantificazione del danno morale da risarcire.
La Corte di appello ha erroneamente derubricati i fatti ai sensi degli artt. 56 e 610 c.p. per la mancanza dell'utilità prevista dalla norma incriminatrice per la fattispecie originariamente contestata.
L'utilità prevista dall'art. 317 c.p. andava ravvisata nel caso in esame nel liberare i posti dei direttori delle strutture sanitarie per nominare persone "loro" (in tal senso è la contestazione), che veniva a costituire un vantaggio oggettivamente apprezzabile, di natura politica.
Utilità di tipo indebito, in quanto estranea alle finalità istituzionali e rivolta a compromettere il regolare funzionamento della P.A. 3. La difesa dell'imputato ha presentato una memoria di replica al ricorso della parte civile, del quale evidenzia la inammissibilità. Sia per carenza di interesse, essendosi la parte civile limitata ad una generica asserzione sulla diversa quantificazione del danno derivante dalla diversa qualificazione giuridica del fatto, senza precisare l'assunto. Sia in ragione della prospettata utilità, nella specie non sussistente posto che il Presidente della Regione non necessitava delle dimissioni dei commissari per revocare il loro incarico, come d'altronde accertato in fatto anche dalla Corte di appello.
Motivi della decisione
1. Il ricorso dell'imputato va accolto per le ragioni che sono di seguito illustrate.
2. E' infatti fondato il profilo di criticità della sentenza impugnata segnalato dalla difesa dell'imputato concernente la ritenuta configurabilità della minaccia nelle condotte accertate in sede di merito.
La Corte di appello ha ritenuto si sia trattato di condotte dotate di rilevanza penale in quanto idonee, "per i toni usati, il ruolo del soggetto attivo, le modalità e i successivi accadimenti", a "coartare la libera capacità di autodeterminarsi delle persone offese", nella specie servendosi di toni lesi della loro professionalità e prospettando loro conseguenze negative nel caso non avessero accettato di dimettersi.
2.1. E' opportuno richiamare quanto hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte con riferimento alla nozione di "minaccia" (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera, p. 13.3-4-5).
Con tale arresto, le Sezioni Unite hanno analizzato la condotta di "minaccia" nel nostro ordinamento per definirne i contorni, così da porre un argine ad interpretazioni troppo estensive e per non correre il rischio di eludere il principio di tipicità, posto che nel codice penale manca una norma che offra una definizione legale del concetto di minaccia.
L'attenzione della Suprema Corte era in particolare rivolta a quella forma di minaccia presente nel codice penale sotto forma di minaccia-mezzo: essa, detta anche "minaccia condizionante", si caratterizza per l'offesa recata oltre che alla integrità psichica (tipica della minaccia-fine, riscontrabile nella fattispecie di cui all'art. 612 c.p.) anche e soprattutto alla libertà di autodeterminazione del destinatario, la cui volontà è coartata dalla intimidazione.
Questa ultima variante di minaccia assume rilievo nel settore penale quale tipica modalità della condotta comune a diverse figure di reato (ad es., violenza privata, estorsione, violenza sessuale e concussione) e, nel settore civile, quale vizio del consenso e causa di annullamento del contratto e dei negozi giuridici in genere.
L'essenza della minaccia-mezzo, secondo le Sezioni Unite, può essere ricavata dalla norma incriminatrice della minaccia-fine (art. 612 c.p.) e risiede nella prospettazione ad altri di "un ingiusto danno", che è nel dominio dell'agente realizzare.
Il danno oggetto della minaccia, per essere ingiusto in senso giuridico, secondo le Sezioni Unite, deve essere contra ius, vale a dire contrario alla norma giuridica e lesivo di un interesse personale o patrimoniale della vittima riconosciuto dall'ordinamento.
Si è precisato altresì che il parametro sulla base del quale deve valutarsi l'ingiustizia del danno deve essere oggettivo e che il danno ingiusto può concretamente assumere varie forme: perdita di un bene legittimamente acquisito; mancata acquisizione di un bene a cui si ha diritto; omessa adozione di un provvedimento vincolato favorevole; ingiusta lesione di un interesse legittimo.
Il concetto giuridico di minaccia, pertanto, deve essere circoscritto all'annuncio da parte dell'agente di un male o danno ingiusto, vale a dire di un sopruso, di un illecito che abbia idoneità ad incutere timore, paura in chi lo percepisce, sì da pregiudicarne l'integrità del benessere psichico e la libertà di autodeterminazione.
La minaccia non necessariamente deve concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali, ma potrà essere anche implicita, velata, allusiva, più blanda ed assumere finanche la forma del consiglio, dell'esortazione, della metafora, purchè tali comportamenti evidenzino, in modo chiaro, una carica intimidatoria analoga alla minaccia esplicita, vi sia cioè una "esteriorizzazione" della minaccia, pur implicita o sintomatica, come forma di condotta positiva.
L'autore della minaccia condizionante deve in ogni caso prospettare alla vittima un'alternativa secca: sottomettersi alla volontà del minacciante o subire il male ingiusto indicato, il che realizza la coercizione.
2.2. Fatte queste premesse, va rilevato che nel caso in esame la Corte di appello, in modo carente e viepiù contraddittorio, ha qualificato come violenza privata la condotta dall'imputato consistita nell'invito rivolto alle persone offese di rassegnare le dimissioni dal loro incarico di commissari straordinari.
La sentenza impugnata ha infatti accertato che, per il carattere fiduciario dell'incarico, sussisteva "la piena discrezionalità dell'autorità politica di nominare e revocare" i commissari straordinari. Quindi la scelta della loro revoca non era soggetta, secondo la Corte di appello, a termini e condizioni.
Coerentemente a questa impostazione, la stessa sentenza impugnata ha escluso (e neppure era stato contestato nella imputazione) un possibile vantaggio, da intendersi come "utilità" anche solo per terzi, che l'imputato intendeva ritrarre dalle persone con tale comportamento intimidatorio.
La circostanza fattuale della piena discrezionalità dell'autorità politica di revocare i commissari straordinari - che non risulta contrastata dalla parte civile (che si limita a criticare l'aspetto della sola "utilità") e che la Corte di legittimità non può sindacare se non con un'incursione nel merito della vicenda processuale - consente di escludere che la mera prospettazione alle persone offese della alternativa tra la rassegnazione delle loro dimissioni e la revoca del loro incarico costituisse per le stesse un danno "ingiusto" nel senso sopra chiarito, posto che costoro dovevano limitarsi a recepire la scelta discrezionale dell'amministrazione di far cessare unilateralmente il rapporto fiduciario, senza alcuna possibilità di opporsi ad essa.
Nè alla stregua di quanto accertato in sede di merito può ritenersi che la illiceità della condotta sia nella specie derivata piuttosto dall'esercizio "distorto" di una facoltà legittima (Sez. 5, n. 8251 del 26/01/2006 Rv. 233226): la revoca dell'incarico era stata infatti prospettata alle persone offese in funzione della necessità di nominare nuovi designati, individuati intuitu personae, e quindi per una finalità compatibile con "la piena discrezionalità" riconosciuta dalla Corte di appello all'autorità politica di nominare e revocare i commissari.
Anche l'attivazione di controlli sulla gestione dei commissari, con possibili strascichi giudiziari, non era di per sè idonea a far acquistare una valenza illecita alla condotta dell'imputato, trattandosi di una prerogativa legittima dell'autorità politica, non correlata dalla Corte di appello in modo implausibile allo status delle persone offese (soggette cioè a controlli sul loro operato).
A ciò va aggiunto che tantomeno poteva costituire una condotta di coercizione psichica il servirsi di "toni lesivi della professionalità" delle persone offese.
In definitiva, la ricostruzione dei fatti non consente di configurare nella condotta dell'imputato quel comportamento o atteggiamento "idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa" (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Rv. 249162).
Le frasi rivolte alle persone offese risultavano invero prive di valenza minatoria sia per il loro contenuto sia perchè il male minacciato era privo dell'ineludibile connotato di ingiustizia.
3. Da quanto sin qui affermato discende, in conclusione, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perchè il fatto non sussiste.
Ed invero, considerate le esigenze di economia processuale sottese alla previsione di cui all'art. 620 c.p.p., lett. l), l'annullamento della sentenza di condanna va disposto senza rinvio, poichè il quadro probatorio appare insuscettibile di ulteriori apporti da colmare in un eventuale giudizio di rinvio (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002, dep. 2003, Carnevale, Rv. 224182; Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100).
L'annullamento esime il Collegio dall'esaminare i restanti vizi sollevati dalla difesa dell'imputato come anche i motivi proposti dalla parte civile, posto che questi ultimi presuppongono pur sempre la configurabilità di un abuso costrittivo, attuato mediante la minaccia di un danno contra ius.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2022