Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-11-2020) 03-05-2021, n. 16782
Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-11-2020) 03-05-2021, n. 16782
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente -
Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere -
Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere -
Dott. BASSI Alessandra - Consigliere -
Dott. SILVESTRI Pietro - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
O.S., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 30/01/2019;
udita la relazione svolta dal Consigliere, SILVESTRI Pietro;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, depositate ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, che ha chiesto che ricorso sia dichiarato inammissibile.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza con cui O.S. è stato condannato per il reato di abuso d'ufficio.
O., nella qualità di direttore generale dell'Azienda sanitaria di servizi alla persona (Asp) di Agrigento, avrebbe omesso di astenersi dal partecipare alla procedura di selezione pubblica per titoli e colloquio per il conferimento dell'incarico quinquennale di direttore della struttura complessa di Medicina trasfusionale presso l'ospedale di S..
Il dovere di astensione sarebbe derivato dalla esistenza di un interesse proprio direttamente connesso ai gravi motivi di inimicizia nei confronti di G.P., direttore facente funzioni presso la struttura complessa indicata e sarebbe stato violato D.M. 28 novembre 2000, art. 6 (codice di comportamento dei dipendenti della amministrazioni pubbliche).
In tal modo l'imputato avrebbe procurato intenzionalmente allo stesso G. un danno ingiusto consistito nella nomina al suddetto incarico di altro soggetto concorrente, pur essendo stati entrambi riconosciuti parimenti idonei dalla commissione valutatrice (in (OMISSIS)).
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato articolando due motivi.
2.1. Con il primo si lamenta violazione di numerose disposizioni di legge, anche processuale, e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità penale.
La Corte avrebbe errato nel ritenere sussistente la situazione fattuale in ragione della quale l'imputato avrebbe avuto l'obbligo di astenersi, ai sensi del D.M. citato art. 6.
Si assume che la norma in questione sarebbe riferibile solo ai dipendenti e non anche al direttore generale ed ai dirigenti e che la situazione tra i due soggetti non fosse di grave inimicizia, perchè caratterizzata solo da fisiologiche divergenze di vedute in ambito professionale.
La tesi difensiva è che, ai fini della configurabilità di una situazione di grave inimicizia, sarebbe necessario non un mero disaccordo professionale ma un risentimento personale derivanti da situazioni private (in tal senso si richiama la giurisprudenza del Consiglio di Stato).
I principi indicati sarebbero oltremodo applicabili, si argomenta, nei casi, come quello di specie, di procedure di selezione fra candidati previste dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 15; si tratterebbe di una procedura caratterizzata, diversamente dai concorsi in senso tecnico, da un elevato potere di scelta del dirigente, sostanzialmente fiduciario, discrezionale e svincolato da criteri predeterminati, esercitato nell'ambito dei soggetti ritenuti idonei da una commissione: una scelta, si aggiunge, espressione della capacità di diritto privato della Pubblica amministrazione da cui, secondo la giurisprudenza amministrativa, non conseguirebbero situazioni soggettive tutelabili.
Il direttore generale opererebbe come un datore di lavoro privato ed in tal senso si ripercorrono una serie di circostanze relative al tentativo - non andato a buon fine- di G., dopo la nomina della commissione, di fare in modo che l'assessorato regionale sospendesse il procedimento di selezione proprio in ragione dei suoi rapporti con l'imputato, ipotizzando un dovere di astensione in capo a questi.
La Corte avrebbe erroneamente ritenuto sussistente nella specie una inimicizia personale nota, senza nemmeno qualificarla come grave, e ciò avrebbe fatto attraverso una errata valutazione di alcune prove dichiarative (testimonianze M., B.).
Sotto altro profilo, la Corte avrebbe richiamato, ai fini della configurazione della violazione di legge, l'art. 97 Cost., che però non sarebbe mai stato oggetto di specifica contestazione e sul punto la sentenza sarebbe nulla per violazione del principio di correlazione ex art. 522 c.p.p..
Nè sarebbe sussistente il requisito del danno ingiusto, atteso che i candidati non erano titolari nè di un diritto soggettivo, nè di un interesse legittimo tutelabile, e neppure quello dell'ingiusto vantaggio patrimoniale, non essendo mai stato dimostrato che il nominato fosse inidoneo all'incarico.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al ritenuto elemento soggettivo.
Nella specie: a) non sarebbe stato provato nessun legame tra l'imputato e il nominato (tale Dott. Bu.); b) la nomina non era macrospicamente illegittima e fu avallata da pareri favorevoli dei dirigenti; c) era in qualche modo necessitata; e) il Dott. Bu. aveva il miglior profilo professionale.
Motivi della decisione
1. Il ricorso, i cui motivi possono essere valutati congiuntamente, è fondato e la sentenza deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.
2. Quanto alla sussistenza del dovere di astensione, dagli atti si evince che la nomina dei dirigente di secondo livello del ruolo sanitario, ai sensi del D.Lgs. 20 dicembre 1992, n. 502, art. 15 ter, come modificato dal D.Lgs. n. 517 del 1993, art. 16, era disposta dal direttore generale dell'Azienda sanitaria a seguito di una procedura non strettamente concorsuale, essendo devoluto alla commissione appositamente formata il solo compito di individuare i candidati idonei ad assumere l'incarico.
Si è spiegato come il direttore generale sia scelto dal Governo regionale in ragione di un rapporto fiduciario e politico legato alla attuazione dei programmi di salute approvati e del conseguimento dei risultati e come, in considerazione di tali atti di indirizzo, il direttore assuma la responsabilità delle nomine della dirigenza sanitaria: una scelta fiduciaria e personale, espressione della libertà dell'azione manageriale.
In tale contesto la Corte di appello ha tuttavia ritenuto che nonostante il carattere discrezionale e fiduciario della scelta compiuta dall'imputato per la nomina di direttore della struttura complessa di medicina trasfusionale presso il presidio ospedaliero di S., detto potere avrebbe dovuto comunque esercitarsi in modo conforme ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. e che, proprio in considerazione di tale esigenza, vi sarebbe stata la necessità che il selezionatore fosse libero da condizionamenti personali ed imparziale.
Da tale presupposto la Corte ha ritenuto che l'imputato avrebbe potuto scegliere il candidato più adatto solo se nei confronti di qualcuno di essi non fossero esistite ragioni per astenersi, come invece vi erano nei confronti di G., attesa la grave inimicizia tra i due.
3. Pur volendo prescindere dalle modifiche apportate al reato di abuso d'ufficio dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, convertito nella L. 11 settembre 2020, n. 120, quello compiuto dai Giudici di merito è un ragionamento che prova troppo e che è solo in parte condivisibile.
La Corte costituzionale, proprio in ordine alla dirigenza medica ed alla norme all'interno delle Aziende sanitare locali, ha spiegato in più occasioni che l'art. 97 Cost., sottopone gli uffici pubblici ad una riserva (relativa) di legge, sottraendoli all'esclusiva disponibilità del governo; stabilisce che gli uffici pubblici siano organizzati secondo i principi di imparzialità ed efficienza; prevede che l'accesso ai pubblici uffici avvenga, di norma, mediante procedure fondate sul merito.
Si è spiegato come il principio di imparzialità stabilito dall'art. 97 Cost., unito quasi in endiadi con quelli della legalità e del buon andamento dell'azione amministrativa - costituisca un valore essenziale cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l'organizzazione dei pubblici uffici" (sentenza n. 453 del 1990).
La Corte, poi, ha affermato che gli artt. 97 e 98 Cost., sono corollari dell'imparzialità, in cui si esprime la distinzione tra politica e amministrazione, tra l'azione del governo normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza - e l'azione dell'amministrazione, che, "nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento".
E in questa prospettiva, si spiega, "il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, resti il metodo migliore per la provvista di organi chiamati a esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione" (sentenze n. 333 del 1993 e n. 453 del 1990).
La selezione dei pubblici funzionari, afferma la Corte, non ammette ingerenze di carattere politico, "espressione di interessi non riconducibili a valori di carattere neutrale e distaccato" (sentenza n. 333 del 1993), unica eccezione essendo costituita dall'esigenza che alcuni incarichi, quelli dei diretti collaboratori dell'organo politico, siano attribuiti a soggetti individuati intuitu personae, vale a dire con una modalità che mira a "rafforzare la coesione tra l'organo politico regionale (che indica le linee generali dell'azione amministrativa e conferisce gli incarichi in esame) e gli organi di vertice dell'apparato burocratico (ai quali tali incarichi sono conferiti ed ai quali compete di attuare il programma indicato), per consentire il buon andamento dell'attività di direzione dell'ente (art. 97 Cost.)" (sentenza n. 233 del 2006).
In particolare, si è affermato che la disciplina privatistica del loro rapporto di lavoro non ha abbandonato le "esigenze del perseguimento degli interessi generali" (sentenza n. 275 del 2001); che il legislatore, proprio per porre i dirigenti (generali) "in condizione di svolgere le loro funzioni nel rispetto dei principi d'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (...), ha accentuato (con il D.Lgs. n. 80 del 1998) il principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di governo e funzione di gestione e attuazione amministrativa dei dirigenti" (cfr., anche testualmente Corte Cost., n. 27 del 2014; n. 152 del 2013, n. 104 del 2007).
4. Dunque, nè il carattere privato del rapporto che lega il direttore generale all'A.s.p., nè le funzioni di attuazione dell'indirizzo politico e gestione amministrativa a lui devolute dalla legge consentivano all'imputato di sottrarsi agli obblighi di correttezza, imparzialità ed al dovere di osservanza della legalità amministrativa.
E tuttavia, il tema è se nella specie esistesse una situazione di conflitto di interessi e, soprattutto, se esistesse una situazione di grave inimicizia, giuridicamente rilevante, che imponesse all'imputato di astenersi.
Sul punto la sentenza non individua nè quale fosse la fonte specifica del dovere di astensione, essendosi limitata a richiamare la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 6 bis in ordine alla sussistenza di un conflitto di interessi ed il D.M. 28 novembre 2000, nè, soprattutto, quale fosse la natura del pregiudizio negativo che O. avrebbe avuto nei riguardi di G..
L'obbligo di astensione va ricondotto al principio costituzionale dell'imparzialità dell'azione amministrativa ed è applicabile quando sussista un diretto e specifico collegamento tra decisione e interesse proprio.
Si sottolinea correttamente in dottrina come la previsione dell'obblio di astensione abbia una valenza meramente strumentale alla realizzazione del principio di imparzialità, legandosi a situazioni anche previamente tipizzabili, ove più pressante appare l'esigenza di garantire la trasparenza dell'operato dell'agente.
Con il tempo la legislazione ha generalizzato l'obbligo di astensione quando possa esservi anche solo il sospetto che la funzione amministrativa possa essere sviata da interesse personale del funzionario.
La L. 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, ha introdotto successivamente ai fatti di causa, la L. n. 241 del 1990, art. 6 bis, richiamato dalla Corte di appello, in forza del quale i responsabili del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri e le valutazioni tecniche e gli atti endo-procedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto d'interessi segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale.
A sua volta il D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, art. 7 - Regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici- ha riproposto una ricognizione della disciplina vigente, imponendo al pubblico dipendente di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possono coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia cause pendenti o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore procuratore, curatore o agente ovvero di enti o associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore, gerente o dirigente, il dipendente ha inoltre l'onere di astenersi in ogni caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza e sull'astensione decide il responsabile dell'ufficio di appartenenza. Per i concorsi pubblici, per i quali già l'art. 290 del testo unico della legge comunale e provinciale del 1915 imponeva di astenersi dal conferire impieghi a parenti e affini fino al quarto grado, il D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, art. 11 - Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi- prevedendo l'obbligo dei commissari di sottoscrivere una dichiarazione attestante "che non sussistono situazioni di incompatibilità tra essi e i concorrenti, ai sensi degli artt. 51 e 52 c.p.c.", ha esteso ai concorsi pubblici la disciplina di incompatibilità e conseguente obbligo di astensione posti dall'ordinamento per il giudice.
Si tratta di situazione tipiche, individuate dal legislatore, che, in quanto limitative dell'esercizio delle funzioni, in via di principio non possono, con il ricorso all'interpretazione analogica, essere estese a fattispecie dal testo non contemplate.
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha spiegato come, anche dopo l'entrata in vigore della L. n. 241 del 1990, art. 6 bis, che impone l'astensione in caso di conflitto d'interessi anche potenziale, le cause di incompatibilità dei componenti delle commissioni di concorso indicate dall'art. 51 rivestano carattere tassativo e sfuggono all'applicazione analogica poichè va tutelata l'esigenza di certezza dell'azione amministrativa (Cons. Stato, n. Sez. 3, n. 2775 del 29/04/2019; Cons. Stato, Sez. 3, n. 1628 del 28/04/2016; Cons. Stato, Sez. 6, n. del 30/07/2013).
In modo simmetrico, la giurisprudenza civile ha chiarito che, ai sensi dell'art. 51 c.p.p., n. 3, la "grave inimicizia" deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (cfr. Sez. 2, n. 27973 del 31/10/2018, Rv. 651462-02; nello stesso senso Sez. 6, n. 34280 del 14/07/2012, Parise, non massimata).
La giurisprudenza amministrativa ha aggiunto che non integrano l'ipotesi di grave inimicizia prevista quale causa d'incompatibilità alle funzioni di componente di una commissione di concorso le manifestazioni di disistima espresse in ambito professionale e didattico, o il giudizio negativo sulla possibilità del candidato di superare il concorso, in quanto atteggiamenti non illeciti nei rapporti scientifici, accademici e lavorativi e tali da non intaccare l'imparzialità dell'organo valutativo (Cons. Stato, Sez. 6, n. 2045 dell'08/04/2000; Cons. Stato, Sez. 2, n. 221 del 23/02/1994).
La Corte di cassazione ha aggiunto che, in materia di abuso d'ufficio determinato da violazione dell'obbligo di astensione, l'espressione omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, contenuta nell'art. 323 c.p., dev'essere letta nel senso che la norma ricollega l'obbligo di astensione a due ipotesi distinte e alternative, quella dell'obbligo di carattere generale, derivante dall'esistenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, e quella della verificazione dei singoli casi in cui l'obbligo sia prescritto da altre disposizioni di legge.
L'art. 323 c.p., ha riordinato la disciplina dell'obbligo di astensione, dettando una norma di carattere generale e coordinando con questa le norme speciali che prevedono casi diversi e ulteriori in cui detto obbligo rimane vigente.
Con il richiamo generalizzato a tutte le norme che disciplinano casi specifici di obbligo di pubblici ufficiali di astenersi, si è risolto preventivamente e in radice qualsiasi contrasto delle norme speciali con la disposizione di carattere generale, che prevale sulle altre nei limiti della propria statuizione.
In altri termini il richiamo - esteso, secondo lo schema della norma penale in bianco, anche alle norme speciali di futura emanazione - delinea un sistema in cui l'ipotesi di carattere generale e quelle particolari risultano armonizzate grazie a un effetto parzialmente abrogante che esclude ogni possibile contrasto (Sez. 6, n. 7992, del 19/10/2004, dep. 2005, Evangelista, Rv. 231477).
5. La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, tenuto conto che nel caso di specie la causa del dovere di astensione era costituito da un fatto tipico (la grave inimicizia) disciplinato dalla legge.
Sotto un primo profilo, si sono valorizzati l'art. 97 Cost. e L. n. 241 del 1990, art. 6 bis, attraverso uno svuotamento del significato normativo tipico della nozione di "grave inimicizia", facendo coincidere quest'ultima con quella di "negativo pregiudizio nei confronti di uno dei candidati" (così a pag. 9 della sentenza).
Si è omesso tuttavia di considerare come detto pregiudizio non fosse correlato a vicende private personali di rancore tra l'imputato e G., ma a fatti legati alla loro sfera professionale, a pregresse vicende relative alla gestione di progetti scientifici, alla forte divergenza di valutazioni su iniziative professionali dello stesso G., alla difformità di valutazioni sulla utilità della Banca Cordonale.
Si trattava di vicende che avevano portato l'imputato a manifestazioni - anche pubbliche - di disistima e di avversione nei riguardi di G., che, tuttavia, inerivano a valutazioni di merito sulla professionalità di questi (in tal senso depone la stessa sentenza impugnata che riporta la deposizione del teste S.) e che, al di là delle forme di manifestazione del dissenso, riguardavano la sfera istituzionale e non quella strettamente privata.
Una disistima professionale che il direttore generale, nell'ambito della legittima scelta discrezionale a lui riconosciuta nella procedura di scelta della dirigenza medica, fece valere, preferendo un altro candidato allo stesso G..
6. Nè sul punto è stato chiarito, al di là della disistima professionale più volte manifestata da O., perchè G. dovesse essere prescelto, sulla base di quali elementi questi dovesse essere nominato, perchè O., in ragione del suo pregiudizio, avrebbe esercitato in maniera sfunzionale il suo potere, per quali ragioni G. fu in concreto pregiudicato.
Pur volendo cioè ipotizzare che l'imputato violò il dovere di astensione, il tema involge la configurazione dell'elemento costitutivo del danno ingiusto, richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
L'art. 323 c.p., delinea un reato di evento e non attribuisce rilievo alla mera esposizione a pericolo dell'interesse garantito, sicchè deve escludersi l'esistenza del delitto allorchè non vi sia la prova certa che dalla condotta sia conseguito un risultato contra ius, e ciò anche nel caso in cui la condotta dell'agente sia non iure.
La mera violazione del dovere di astensione non è punibile in sè stessa, dovendo essa essere, da una parte, diretta in modo idoneo e non equivoco a cagionare l'evento normativamente previsto, e, dall'altra, sorretta dal dolo intenzionale richiesto dalla norma incriminatrice.
La violazione del dovere di astensione, cioè, non comporta di per sè la responsabilità dell'agente se dal fatto non deriva alcun ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno (Cosi, Sez. 6, n. 12075 del 06/02/2020, Stefanelli, Rv. 278723; Sez. 6, n. 14457 del 15/03/2016, De Martin Topranim, Rv. 255324; Sez. 6, n. 47978 del 27/10/2009, Calzolari, Rv. 245447; Sez. 6, n. 26324 del 26/04/2007, P.M. in proc. Borrelli, Rv. 236857; Sez. 6, n. 11415 del 21/02/2003, Gianazza, Rv. 224070).
Non è ingiusto il profitto o il danno ogni qual volta vi sia stata la violazione del dovere di astensione, occorrendo invece che profitto e danno siano in sè stessi ingiusti; il danno o il vantaggio procurato non possono considerarsi ingiusti in tutti i casi in cui un corretto uso del potere discrezionale da parte di un altro pubblico ufficiale, non interessato all'atto, avrebbe condotto allo stesso risultato.
L'ingiustizia del danno non si identifica nella illegittimità del mezzo utilizzato: esso deve sussistere a prescindere dall'abuso perpetrato, attesa la necessità che il risultato della condotta corrisponda di per sè ad una situazione antigiuridica, senza considerare il mezzo con cui questa è stata posta in essere (cfr., Sez. 6, n. 17676 del 18/03/2016, Rv. 267171).
La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei principi in questione, avendo affermato che il danno ingiusto nella specie sarebbe consistito non nel mancato ottenimento da parte di G. del posto messo a concorso, ma nella lesione dell'aspettativa tutelata di questi di essere valutato secondo parametri non inficiati dal pregiudizio dell'imputato.
Si tratta di un ragionamento tecnicamente non condivisibile perchè si è fatto coincidere l'evento del reato e l'ingiustizia del danno, con la violazione dell'obbligo di astensione.
Ciò che si doveva verificare è se, per effetto della violazione del dovere di astensione, fosse stato cagionato un danno ingiusto ulteriore, e cioè che, se quella valutazione per quel concorso fosse stata fatta da un dirigente diverso e non "inquinato" - cioè non in posizione di conflitto- l'esito sarebbe stato diverso.
Sul punto la sentenza è silente e pertanto deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste, per mancanza del requisito della violazione dell'obbligo di astensione e di quello della ingiustizia del danno.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 17 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2021