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Sentenza

Può integrare un'ipotesi di delitto politico il crimine di guerra che, pur non possedendo connotati di estensione e sistematicità tali da farlo assurgere a crimine contro l'umanità, si caratterizza per una così spiccata gravità della condotta da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona e, pertanto, anche del cittadino, la cui tutela è sancita da norme inderogabili sia dell'ordinamento internazionale che di quello interno.
Può integrare un'ipotesi di delitto politico il crimine di guerra che, pur non possedendo connotati di estensione e sistematicità tali da farlo assurgere a crimine contro l'umanità, si caratterizza per una così spiccata gravità della condotta da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona e, pertanto, anche del cittadino, la cui tutela è sancita da norme inderogabili sia dell'ordinamento internazionale che di quello interno.
Cassazione Penale  
Sez. I, Sent. n. 24795 del 01 giugno 2018

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'assise d'appello di Brescia confermava l'affermazione di responsabilità pronunciata nei confronti di P.H. (detto Pa.) all'esito del giudizio abbreviato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Brescia con sentenza del 2 marzo 2017, in relazione ai delitti di rapina pluriaggravata (art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 2 e art. 628 c.p., commi 1 e 2, nn. 1 e 2, - Capo A) e di triplice omicidio commesso ai danni di L.S., Pu.Gu. e M.F. (art. 110 c.p., art. 81 cpv. c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 2, art. 575 c.p., - Capo A), escludendo la circostanza aggravante di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 1, rideterminando la pena in anni 20 di reclusione.

1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito è stata affermata la responsabilità dell'imputato, maggiore dell'esercito bosniaco e comandante del reparto che operava nella zona di (OMISSIS) durante il conflitto derivante dalla dissoluzione della (OMISSIS), per avere cagionato in data (OMISSIS) la morte dei tre cittadini italiani L.S., Pu.Gu. e M.F., volontari della Caritas e del "Coordinamento bresciano per l'iniziativa nella ex (OMISSIS)", che si erano ivi recati con mezzi carichi di aiuti per fornire sostegno umanitario alle popolazioni coinvolte, venendo depredati del carico e, tre di essi, della vita, mentre gli altri due volontari Pe.Cr. e Z.A. riuscivano a sfuggire alla vera e propria esecuzione compiuta, in una zona disabitata e boschiva, mediante l'esplosione di numerosi colpi di mitragliatore ed altre armi automatiche utilizzate dai militari sotto il comando dell'imputato P.H., nell'ambito della cd. "guerra dei convogli".

1.2. P.H. è stato già giudicato dall'autorità giudiziaria bosniaca e condannato alla pena ritenuta di giustizia, subendo un periodo di detenzione.

Dopo la liberazione, P.H. si rifugiava in Germania dove veniva raggiunto dal mandato di arresto Europeo emesso dall'autorità giudiziaria bresciana per i fatti sopra descritti, venendo poi consegnato alle autorità giudiziarie italiane per la celebrazione del processo a suo carico, avendo il Ministro della giustizia italiano avanzato, dapprima, la richiesta di punizione ai sensi dell'art. 8 c.p. e, poi, la richiesta di rinnovamento del giudizio ai sensi dell'art. 11 c.p..

Il giudice dell'udienza preliminare, all'esito del giudizio di primo grado celebratosi nelle forme del giudizio abbreviato, nel pronunciare la condanna per i fatti sopra richiamati proscioglieva l'imputato per prescrizione dalle concorrenti accuse di sequestro di persona pluriaggravato e di tentato omicidio in danno di Pe.Cr. e Z.A..

2. Ricorrono il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Brescia e l'imputato P.H..

3. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Brescia denuncia che la sentenza è nulla per violazione di legge, in relazione alla erronea determinazione della pena per il delitto di omicidio plurimo, non avendo la Corte d'assise d'appello tenuto conto dell'aggravante della premeditazione, di cui all'art. 577 c.p., comma 1, n. 3, che era stata contestata in fatto e implicitamente riconosciuta già nel giudizio di primo grado.

3.1. Il difensore dell'imputato P.H. ha depositato memoria con la quale deduce l'inammissibilità del ricorso del Pubblico ministero.

4. L'imputato P.H. ha presentato ricorso, a mezzo del difensore avv. Stefano Paloschi, formulando tre motivi di ricorso.

4.1. Con il primo motivo di ricorso l'imputato denuncia la violazione di legge, in relazione agli artt. 8 e 128 c.p., e il vizio della motivazione con riguardo al difetto della condizione di procedibilità della richiesta di procedimento per il delitto politico, essendo questa intervenuta oltre il termine previsto dall'art. 128 c.p..

In particolare, si deduce che il Ministro della giustizia ha avuto conoscenza della natura politica del delitto per cui si procede a seguito dell'interrogazione parlamentare proposta in data 25 giugno 1996, avendo inoltrato il 29 luglio 1996 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia una nota con richiesta di fornire elementi utili per la risposta all'atto di sindacato parlamentare.

Il 5 settembre 1997 il Ministro della giustizia riceveva la nota della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia con la quale si chiedeva di far conoscere le determinazioni dell'organo politico in ordine alla proposizione della richiesta di cui all'art. 8 c.p..

Il successivo 22 dicembre 1997, quando ormai era decorso il termine di cui all'art. 128 c.p., il direttore generale del Ministero della giustizia inviava una nota al Pubblico ministero procedente con la quale richiedeva di esprimere le proprie valutazioni in merito alla natura politica del delitto.

Non risultando pervenuta una risposta, il Ministero della giustizia in data 22 luglio 1998 sollecitava ulteriormente la Procura procedente che, con nota 5 agosto 1998, ravvisava la natura politica del delitto, sicchè soltanto il 10 settembre 1998, a distanza di oltre un anno dall'avvenuta conoscenza dei fatti per cui si procede, il Ministro della giustizia, proponeva la richiesta di procedimento ex art. 8 c.p..

4.2. Con il secondo e il terzo motivo di ricorso l'imputato denuncia la violazione di legge, in relazione all'art. 11 c.p., artt. 129 e 425 c.p.p., per essere stata esercitata l'azione penale in assenza della condizione di procedibilità della richiesta di rinnovamento del giudizio, pervenuta dopo l'esercizio dell'azione penale e comunque tardivamente, con violazione dell'obbligo dell'immediata declaratoria ex art. 129 c.p.p., ovvero di proscioglimento ex art. 425 c.p.p., da parte del Giudice dell'udienza preliminare.

In particolare, si evidenzia che il Pubblico ministero ha esercitato l'azione penale formulando la richiesta di rinvio a giudizio in data 20 settembre 2016, in relazione alla quale il Giudice dell'udienza preliminare fissava l'udienza del 10 ottobre 2016.

La difesa depositava in data 3 ottobre 2016 l'istanza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., rilevando la tardività della condizione di procedibilità di cui all'art. 8 c.p., e l'assenza della condizione di procedibilità di cui all'art. 11 c.p., senza che il giudice abbia proceduto in tal senso (Sez. 2, n. 45160 del 22/10/2015, Gioia, Rv. 265098).

D'altra parte la Procura della Repubblica riceveva soltanto in data 7 ottobre 2016 la richiesta di procedimento ai sensi dell'art. 11 c.p., formulata dal Ministro della giustizia, sicchè l'imputato avrebbe già dovuto essere prosciolto ai sensi dell'art. 129 c.p.p., perchè alla data della richiesta di rinvio a giudizio tale condizione non sussisteva.

Si contesta, in particolare l'applicabilità e l'interpretazione delle sentenze Sez. 5, n. 29205 del 16/02/2016, P.C. in proc. Rahul Jetrenda, Rv. 267617 e Sez. 1, n. 6698 del 10/05/1991, P.M. e Di Bella ed altro, Rv. 188032, citate nella sentenza impugnata, cui si oppongono altre decisioni di legittimità (Sez. 1, n. 24893 del 27/05/2009, Adinolfi e altri, Rv. 243803; Sez. 1, n. 33741 del 07/07/2005, Argenti ed altri, Rv. 232110).
Motivi della decisione

1. I ricorsi del Procuratore generale e dell'imputato P.H. sono infondati.

1.1. E' utile premettere che il ricorso dell'imputato e quello del Procuratore generale non contestano la ricostruzione del fatto e la responsabilità, sicchè potrà farsi riferimento alle argomentazioni in proposito sviluppate nelle decisioni di primo e secondo grado.

2. E' infondato il primo motivo di ricorso dell'imputato P.H. che denuncia la violazione di legge (artt. 8 e 128 c.p.), e il vizio della motivazione con riguardo al difetto della condizione di procedibilità della richiesta di procedimento per il delitto politico, essendo intervenuta oltre il termine previsto dall'art. 128 c.p..

2.1. E' necessaria una breve illustrazione dei fatti processuali rilevanti.

Il nome di P.H. venne iscritto nel registro degli indagati presso la Procura della Repubblica di Brescia in data 22 novembre 1993.

Il 16 maggio 1996 il Pubblico ministero avanzava richiesta di misura cautelare che però venne respinta dal Giudice delle Indagini preliminari con ordinanza del 21 maggio 1996; il giudice, nella prospettiva in allora attuale del delitto comune, rilevava la carenza della condizione di procedibilità, di cui all'art. 9 c.p., consistente nella presenza dell'autore del reato in territorio italiano.

Rispondendo a una richiesta del Ministro della giustizia del 18 giugno 1997 il successivo 1 luglio 1997 la Procura trasmetteva copia della richiesta di emissione della misura cautelare, dell'ordinanza di diniego, dell'appello ex art. 310 c.p.p., e della decisione del Tribunale del riesame che aveva confermato il provvedimento impugnato.

In data 5 settembre 1997 il titolare del fascicolo trasmetteva al Ministro della giustizia copia della memoria depositata dal difensore delle persone offese Pu., Pe. e Z. contenente una ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento penale; "Credo" scriveva il Pubblico ministero, "che il contenuto di queste memorie debba essere valutato dalla S.V. al fine di consentire, alla stregua degli elementi da ultimo raccolti, l'eventuale proposizione delle richieste ex art. 8 c.p., fino ad oggi mancanti".

Il Direttore Generale competente rispondeva il 22 dicembre 1997 puntualizzando che la norma citata attribuisce al titolare del dicastero "il solo potere di valutare l'opportunità del perseguimento penale nello Stato di un delitto politico e non quello di attribuire allo stesso tale natura", invitando quindi la Procura della Repubblica di Brescia a "esprimere le proprie valutazioni al riguardo". Annotava, in vero, il ministero della giustizia che la ricevuta memoria difensiva, nell'attribuire la connotazione politica all'omicidio, si fondava "su valutazioni e prospettazioni di parte" in ordine "a circostanze e fatti tra l'altro dei quali non appare chiara l'acquisizione o meno alle indagini svolte dalla Procura".

Le richieste del ministero erano poi reiterate, a fronte del mancato riscontro da parte della Procura, con missiva in data 22 luglio 1998.

In risposta a tale ultima sollecitazione, il Procuratore della Repubblica di Brescia il 5 agosto 1998 formulava la seguente risposta: "Circa la valutazione in ordine all'attribuibilità della qualità di delitto politico all'eccidio, avvenuto in (OMISSIS), dei tre volontari italiani... ritengo di dover esprimere il convincimento secondo cui tale crimine, attesa la presenza in quel territorio dei predetti cittadini italiani con un convoglio umanitario in aiuto alla popolazione civile nel contesto di una gravissima emergenza bellica, possa considerarsi offensivo, ex art. 8 c.p., di un interesse politico dello Stato italiano nonchè, o quantomeno, dei diritti politici dei menzionati cittadini italiani".

Il 10 settembre 1998 il Ministro, "vista la nota della Procura della Repubblica di Brescia" di cui si è appena detto, "ritenuto che l'assunto sia da condividersi, non potendosi escludere, in considerazione della dinamica dell'azione delittuosa... nonchè del contesto in cui essa si svolse (essendo in corso, in quel momento, la c.d. "guerra dei convogli") che il movente del delitto fosse in qualche modo collegato alla dinamica della guerra Croato-Musulmana... e che pertanto esso sia stato commesso in tutto o in parte per finalità trascendenti la personalità degli autori in quanto legate ai sovvertimenti degli equilibri politici dell'area", richiedeva che si procedesse nello Stato a carico del cittadino bosniaco P..

2.2. Ciò premesso, è infondato il motivo di ricorso che denuncia la tardività della richiesta di procedimento, in quanto intervenuta dopo lo spirare del termine trimestrale previsto dall'art. 128 c.p., poichè il Ministro venne investito dei necessari elementi di conoscenza per esprimere la valutazione a lui riservata fin dal 5 settembre 1997, di talchè alla missiva interlocutoria del 22 dicembre 1997 occorreva riconoscere uno scopo meramente strumentale, essendo la stessa funzionale a rimettere in termini il Ministro a fronte dell'ormai maturato decorso del termine trimestrale.

Il motivo di ricorso è infondato perchè la qualificazione "politica" di un determinato reato non spetta al Ministro della giustizia, ma all'Autorità giudiziaria, incombendo al primo solo "una scelta, vincolata al perseguimento di fini legislativamente determinati, di politica criminale" (Corte Costituzionale, ord. 27 maggio 1989 n. 289) circa la opportunità, tenuto conto della rispondenza agli interessi del Paese, di sottoporre a processo in Italia quel reato, appunto "politico", quand'anche commesso all'estero.

Condizione perchè il Ministro possa esprimere quella valutazione è che l'organo della Pubblica accusa intenda procedere in relazione a un delitto qualificato come "politico", perchè solo in tal caso si rivela necessaria la manifestazione del volere del Ministro stesso (non necessaria, ad esempio, ex art. 10 c.p., laddove si tratta di "delitto comune" a seguito della presentazione della istanza o querela della persona offesa).

Nel caso di specie, in effetti, il Ministro della giustizia, posto a conoscenza del fatto per cui si procede e - impropriamente - investito della richiesta di valutare se il delitto avesse i caratteri propri di cui all'art. 8 c.p., si è limitato a sollecitare il Pubblico ministero a compiere detta valutazione, così rispettando il principio di separazione dei poteri e l'art. 101 Cost., comma 2.

Spetta, infatti, all'autorità giudiziaria la valutazione della natura "politica" di un reato, con la precisazione che detta valutazione non si esaurisce nella fase delle indagini preliminari, ma si sviluppa per tutto il corso del giudizio, competendo al giudice di confermare la ridetta qualificazione poichè rientra nell'oggetto della cognizione allo stesso attribuita dalla legge (è solo il caso di evidenziare che entrambi i giudici di merito hanno riconosciuto la natura "politica" dei delitti per cui si procede, tanto che anche il ricorso non contesta tale qualificazione).

Il Pubblico ministero, invitato dall'organo politico a compiere l'indicata valutazione, ha formalizzato le proprie conclusioni con la nota del 5 agosto 1998, cui ha fatto seguito, nel rispetto del termine stabilito dall'art. 128 c.p., la richiesta ministeriale del 10 settembre 1998, perciò idonea a determinare la unibilità nello Stato dei delitti politici per cui si procede.

3. Pur non essendo contestata la natura politica dei delitti ascritti a P., il Collegio, nell'ambito dei limiti propri del giudizio di legittimità, ritiene utile fornire un breve inquadramento della questione.

3.1. La giurisprudenza di legittimità è giunta a riconoscere l'esistenza di una definizione di reato politico con funzione repressiva, dettata dal c.p., e di una definizione con funzione di garanzia della persona umana, rinvenibile nelle norme costituzionali (art. 26 Cost.), e nelle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.), tra cui spiccano la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e la Convenzione Europea per la prevenzione del terrorismo firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1977 (Sez. 6, n. 31123 del 19/06/2003, Baazaoui, Rv. 226520).

In particolare, si è precisato che "la qualificazione di un delitto come politico data dall'art. 8 c.p., va letta alla luce dell'art. 10 Cost., secondo il quale l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale, tra le quali si pone in particolare la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che obbliga gli Stati al rispetto di alcuni diritti fondamentali nei confronti di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione" (Sez. 1, n. 23181 del 28/04/2004, Suarez, Rv. 228663).

D'altra parte, si è affermato che "i crimini di guerra sono integrati da quei comportamenti posti in essere nell'ambito di un conflitto armato, i quali, pur risultando privi dei connotati di estensione e di sistematicità propri dei crimini contro l'umanità, si caratterizzano per la lesione dei valori universali di rispetto della dignità umana, che trascendono gli interessi delle singole comunità statali impegnate nel contesto bellico" (Sez. 1, n. 43696 del 14/09/2015, Dobrivoje, Rv. 264749). In applicazione del principio questa Corte ha ravvisato la configurabilità del crimine di guerra nell'omicidio plurimo eseguito nei confronti di militari appartenenti ad una missione di monitoraggio internazionale.

3.2. Il Collegio, sulla scorta delle emergenze processuali sopra richiamate, ritiene che il comportamento di P. debba ricondursi alla nozione di crimine di guerra essendosi concretizzato in un omicidio plurimo eseguito nei confronti di civili appartenenti a una missione umanitaria che veniva svolta sul territorio della ex (OMISSIS), configurandosi la condotta per connotazioni di gravità tali da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona, la cui tutela è affidata a norme inderogabili che si collocano al vertice sia dell'ordinamento costituzionale italiano che dell'ordinamento internazionale, siccome offendono i diritti dei cittadini poichè conculcano le libertà fondamentali che lo Stato è chiamato a tutelare.

Nè potrebbe essere diversamente, in ragione del fatto che, nel caso in esame, la condotta di P. costituisce una palese violazione dei principi contenuti nella Convenzione di Ginevra approvata il 12 agosto 1949, determinando il decesso dei tre volontari italiani che viaggiavano a bordo dei mezzi, recanti le insegne identificative dell'organizzazione umanitaria italiana, catturati e depredati in una azione di guerra.

Il comportamento del ricorrente, che ha dato luogo a un fatto tutt'altro che estemporaneo e attribuibile a iniziativa personale di un singolo, essendo stato provocato da un ordine criminoso che è passato attraverso l'apparato militare dello Stato straniero rientrante in una strategia militare definita "guerra dei convogli", possiede caratteristiche di gravità tali da costituire un'offesa ai diritti dei cittadini da cui discende il riconoscimento della esistenza della giurisdizione italiana.

4. Anche il secondo e il terzo motivo di ricorso dell'imputato P.H. sono infondati.

4.1. Va, innanzitutto, precisato che una volta intervenuta la richiesta di procedimento ex art. 8 c.p., il Pubblico Ministero ha ottenuto dal Giudice per le indagini preliminari un'ordinanza cautelare che, tuttavia, è rimasta ineseguita per lungo tempo.

Soltanto nel corso del 2015 l'autorità giudiziaria procedente ha appreso della presenza di P.H. in un Paese UE (Germania), procedendo a emettere il mandato di arresto Europeo.

Dopo la consegna, il Pubblico ministero ha esercitato l'azione penale, informando il Ministro della giustizia che l'imputato era già stato giudicato all'estero.

Prima della celebrazione dell'udienza preliminare è pervenuta la richiesta di rinnovamento del giudizio ex art. 11 c.p..

Poste queste premesse, è utile evidenziare che le questioni oggetto del ricorso sono molteplici, sicchè si impone una breve ricostruzione dei vari istituti che vengono in esame.

4.2. Con riferimento alla previsione di cui all'art. 11 c.p., si è affermato che non sussiste alcun obbligo di diritto internazionale consuetudinario, cui lo Stato italiano debba conformarsi a mente dell'art. 10 Cost., comma 1, che imponga l'applicazione del principio del ne bis in idem in campo internazionale (Corte Cost. n. 69/1976).

4.2.1. Pur non essendo rilevante nel caso di specie poichè la Bosnia non faceva parte degli accordi di cui si dirà tra poco, è opportuno ricordare che secondo una parte della giurisprudenza l'entrata in vigore, in ambito UE, dell'Accordo di Schengen del 27.11.1990, ratificato con L. n. 388 del 1993, il cui art. 54, stabilisce che "una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra parte contraente, a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge della parte contraente di condanna, non possa più essere eseguita", impedisce il rinnovamento del giudizio nel caso in cui la condotta, per la quale si è celebrato il processo all'estero, sia stata giudicata in un Paese aderente all'Accordo in questione ed indipendentemente dall'applicabilità dall'art. 53 della Convenzione Europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, resa esecutiva in Italia con L. 16 maggio 1977, n. 305, e dal richiamo alla Convenzione di Bruxelles del 25.5.1987, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 350, (Sez. 6, n. 32609 del 25/09/2006, Manieri, Rv. 234766, ha affermato che non è ostativa alla celebrazione del giudizio, in base all'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, la precedente condanna riportata per lo stesso fatto in uno Stato aderente alla suddetta Convenzione, quando la relativa pena non sia stata eseguita, nè sia in corso di esecuzione, anche se sia ancora eseguibile; in precedenza Sez. 1, n. 28299 del 03/06/2004, Desiderio, Rv. 228779).

Anteriormente all'entrata in vigore, avvenuta il 26.10.1997, dell'Accordo di Schengen la giurisprudenza era orientata a dare applicazione alla regola generale di cui all'art. 11 c.p., salvo che fossero state ratificate la Convenzione Europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, resa esecutiva in Italia con L. 16 maggio 1977, n. 305, e la Convenzione di Bruxelles del 25.5.1987, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 350, (Sez. 1, n. 4625 del 03/07/1997, Sesta, Rv. 208348).

4.3. Così chiarito l'ambito di applicazione del rinnovamento del giudizio, è necessario sottolineare che non sussiste alcun rapporto tra la richiesta ex art. 8 c.p., e quella di rinnovamento del giudizio di cui all'art. 11 c.p..

In effetti, si tratta di due situazioni completamente diverse, poichè la prima attiene alla condizione di procedibilità prevista per la punibilità del delitto politico commesso all'estero, tant'è che per essa è del tutto irrilevante che vi sia un giudicato straniero sul punto, mentre la richiesta di cui all'art. 11 c.p., presuppone, al contrario, che il reo sia già stato giudicato per un reato commesso all'estero (la condizione riguarda tutti i reati commessi all'estero ex artt. 7, 8, 9 e 10 c.p.).

In tale ultimo caso, ferma restando la possibilità di procedere al riconoscimento della sentenza straniera ex art. 12 c.p., il Ministro della giustizia può richiedere che il reo sia giudicato anche in Italia.

4.3.1. In proposito è utile richiamare, anche perchè direttamente applicabile al caso oggetto del giudizio, l'orientamento di legittimità secondo il quale, poichè nell'ordinamento italiano non vige il principio del ne bis in idem internazionale, la sentenza penale emessa in un Paese extra - Europeo (come avvenuto nel caso di specie) non impedisce il rinnovamento del giudizio in Italia per lo stesso fatto, sempre che il Ministro della giustizia ne faccia richiesta ai sensi dell'art. 11 c.p., comma 2, sicchè il pregresso riconoscimento della sentenza penale straniera sullo stesso fatto - eventualmente richiesto dal Ministro della giustizia nel caso in cui non esista trattato di estradizione con lo Stato estero ex art. 12 c.p., comma 2, - non preclude il possibile esercizio dell'azione penale in Italia.

L'istituto del riconoscimento, infatti, non comporta il recepimento integrale della decisione straniera, ma produce i limitati effetti tassativamente indicati e non è in relazione di alternatività o incompatibilità con il rinnovamento del giudizio, soprattutto quando il Ministro della giustizia non abbia potuto esercitare contestualmente - per circostanze oggettive - l'eventuale opzione tra i due istituti (così: Sez. 1, n. 12953 del 05/02/2004, Di Blasi, Rv. 227852).

Si noti che nel caso citato, il riconoscimento della sentenza penale emessa dalla Corte Suprema del Sud Africa era stato richiesto quando l'imputato si trovava ancora all'estero per l'espiazione della pena colà inflittagli, mentre le condizioni per richiedere il rinnovamento del giudizio, per il delitto di omicidio volontario commesso all'estero, erano divenute sussistenti solo in seguito al suo rientro in Italia.

4.3.2. Deve, dunque, concludersi che la richiesta di rinnovamento del giudizio è legata unicamente alla circostanza che per il reato oggetto del procedimento l'imputato sia già stato giudicato all'estero, mentre la procedibilità per detto reato resta regolata dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p., sicchè il rapporto tra le due richieste è eventuale e comunque diacronico, nel senso che la prima è necessaria solo ove vi sia un giudicato straniero, cosicchè può intervenire in un momento diverso rispetto alla seconda.

Si pensi, per esemplificare, proprio al caso oggetto del giudizio: la richiesta ex art. 8 c.p., è legittimamente intervenuta nel 1998 quando ancora P.H. non era stato giudicato in Bosnia, sicchè l'autorità giudiziaria italiana avrebbe indubbiamente potuto procedere a giudicarlo per il delitto politico attribuitogli.

Una volta avuta notizia del sopraggiunto giudicato straniero, si è reso necessario avviare la procedura di cui all'art. 11 c.p., rimettendo al Ministro della giustizia la valutazione di rimuovere l'ostacolo all'operare del bis in idem internazionale.

5. Così chiariti i rapporti tra le due distinte richieste ministeriali, è necessario domandarsi se la richiesta di rinnovamento del giudizio di cui all'art. 11 c.p., debba sopraggiungere entro un certo termine.

5.1. La giurisprudenza di legittimità è orientata a escludere che sia applicabile la previsione contenuta nell'art. 128 c.p., alla richiesta di rinnovamento del giudizio di cui all'art. 11 c.p..

In proposito, infatti, si è affermato che "la richiesta di rinnovamento del giudizio nello Stato, di cui all'art. 11 c.p., comma 2, non è soggetta al termine di cui all'art. 128 c.p.", (Sez. 1, n. 8105 del 15/05/1989, Bagarello, Rv. 181501), tanto che si è precisato che "la richiesta del ministero di grazia e giustizia di cui all'art. 11 c.p., comma 2, non è soggetta a termine e, quindi, può essere formulata anche in via preventiva ed in previsione del passaggio in giudicato della sentenza straniera" (Sez. 1, n. 6602 del 13/02/1987, Volpi, Rv. 176042).

Risulta, in proposito, particolarmente aderente alla problematica oggetto del giudizio, un (pur) risalente precedente di legittimità (Sez. 2, n. 859 del 16/05/1966, Guglielmo, Rv. 102979) che riguarda i rapporti tra la richiesta ex art. 9 c.p. e quella ex art. 11 c.p., ma che, all'evidenza, risulta particolarmente illuminante anche per quello che concerne i rapporti tra gli artt. 8 e 11 c.p..

Si è affermato che "le richieste di procedimento previste dagli artt. 9 e 11 c.p., non sono atti equiparabili e fungibili, nel senso che la dichiarazione di volontà espressa ai fini della prima norma non è utilizzabile ai fini della seconda. In particolare, nel caso in cui sia iniziato in Italia un giudizio con regolare richiesta ex art. 9, e successivamente si venga a conoscenza che analogo procedimento e stato iniziato all'estero per lo stesso fatto, incombe al giudice il dovere di accertare se quest'ultimo procedimento sia stato definito con sentenza irrevocabile e, nell'ipotesi affermativa, egli ha l'obbligo di darne conoscenza al Ministro della giustizia, al fine di provocare la sua scelta alternativa tra gli istituti dell'art. 11, (rinnovazione del giudizio in Italia) o dell'art. 12, (riconoscimento della sentenza straniera). Solo a seguito del mancato esercizio di tale potere da parte del Ministro, può e deve dichiararsi non doversi procedere, nella prospettata ipotesi, per difetto di richiesta (ex art. 11), nel giudizio che già era stato regolarmente iniziato con la richiesta ex art. 9".

5.2. Se, quindi, non sembra direttamente applicabile alla richiesta di rinnovamento del giudizio il termine di cui all'art. 128 c.p., non di meno, quando l'autorità giudiziaria accerta che l'imputato è già stato giudicato all'estero per lo stesso fatto ha l'obbligo di renderne edotto il Ministro della giustizia perchè compia la valutazione di sua competenza.

A fronte del positivo scrutinio da parte dell'autorità giudiziaria della sussistenza di una ipotesi di bis in idem internazionale, compete al Ministro, nell'ottica di leale collaborazione, di compiere tempestivamente le proprie valutazioni onde consentire all'autorità giudiziaria di assumere le conseguenti decisioni sulla prosecuzione o sulla conclusione del giudizio (si noti, incidentalmente, che l'eventuale proscioglimento per mancanza della richiesta ex art. 11 c.p., è sottoposto al regime di cui all'art. 345 c.p.p.).

5.3. E' utile, infine, chiarire che compete unicamente all'autorità giudiziaria verificare e accertare che sussista effettivamente un'ipotesi di bis in idem internazionale, facendo all'uopo ricorso ai consolidati canoni ermeneutici (in primis: sentenza Corte Costituzionale n. 200 del 2016).

La precisazione non è superflua perchè potrebbero sorgere divergenze interpretative non solo rispetto all'organo politico, ma soprattutto tra le parti del giudizio; in questa eventualità è evidente che la valutazione dell'autorità giudiziaria procedente potrà essere sottoposta al finale scrutinio di legittimità di questa Corte regolatrice.

5.4. Ciò premesso, può concludersi che compete all'autorità giudiziaria, eventualmente compulsata dalle parti, valutare la sussistenza del bis in idem internazionale e investire il Ministro della giustizia della valutazione di opportunità di procedere al rinnovamento del giudizio, ancorchè esso sia già in corso nello Stato in forza di una precedente richiesta di procedimento ex art. 8 c.p., non potendosi procedere, in assenza di una specifica determinazione in tal senso, alla declaratoria di improcedibilità o non punibilità per difetto della richiesta ex art. 11 c.p..

D'altra parte, l'obbligo del Ministro della giustizia di compiere la valutazione politica di cui all'art. 11 c.p., non può farsi decorrere dalla semplice conoscenza della esistenza di una sentenza straniera.

Non spetta, infatti, all'organo politico stabilire se il giudicato straniero riguardi lo stesso fatto-reato in relazione al quale è in corso il processo nello Stato.

Il Ministro della giustizia, pertanto, sarà chiamato a compiere la valutazione propria, solo quando venga formalmente investito da parte dell'autorità giudiziaria che, dovendo procedere (indagini preliminari) o avendo in corso un processo a carico del condannato all'estero, accerti l'identità del fatto - reato.

E' evidente, inoltre, che l'autorità giudiziaria, dopo avere provveduto a informare il Ministro della giustizia della sussistenza dell'ipotesi di cui all'art. 11 c.p., non potrà assumere alcuna determinazione sul successivo sviluppo del procedimento perchè altrimenti porrebbe nel nulla la valutazione ministeriale.

Si vuole, con ciò, rimarcare che la doverosa informativa al Ministro della giustizia circa la ricorrenza del bis in idem impedisce all'autorità giudiziaria di procedere all'immediata declaratoria di improcedibilità del reato ex art. 129 c.p.p., perchè altrimenti la determinazione ministeriale ne risulterebbe pregiudicata.

D'altra parte, l'autorità giudiziaria procedente, informato il Ministro, potrà assumere le prove a mente dell'art. 346 c.p.p., sussistendone i presupposti.

6. Resta da stabilire se il Ministro della giustizia, investito dall'autorità giudiziaria della sussistenza dell'ipotesi di cui all'art. 11 c.p., abbia un termine per pronunciarsi.

6.1. Come si è detto, la giurisprudenza di legittimità esclude l'applicabilità del termine previsto dall'art. 128 c.p..

In effetti, tale termine si riferisce alla "punibilità di un reato" e richiama puntualmente le formule utilizzate negli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p., mentre la richiesta ex art. 11 c.p., concerne la procedibilità dell'accusa e del giudizio, tant'è che espressamente stabilisce che il reo "è giudicato nuovamente nello Stato", facendo univoco riferimento alla richiesta quale rimozione di un ostacolo processuale allo sviluppo dell'azione.

D'altra parte, l'art. 128 c.p., si riferisce espressamente alla "notizia del fatto che costituisce reato", mentre la richiesta di rinnovamento del giudizio ex art. 11 c.p., presuppone non solo la conoscenza del reato, la cui punibilità dipende a sua volta dalla ricorrenza delle ipotesi di cui agli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p., ma soprattutto la consapevolezza dell'esistenza di una ipotesi di bis in idem.

6.2. Alla luce di tali considerazioni deve concludersi che non è previsto un termine perchè il Ministro della giustizia avanzi la richiesta di rinnovamento del giudizio ex art. 11 c.p., sicchè deve, in proposito, farsi ricorso agli ordinari meccanismi processuali che riguardano le condizioni di procedibilità.

Quando l'esistenza del bis in idem internazionale sia stata accertata dall'autorità procedente nel corso delle indagini preliminari, non potrà procedersi oltre con l'azione penale finchè il Ministro della giustizia, informato di ciò, non proponga la prevista richiesta di rinnovamento del giudizio.

Quando, invece, l'esistenza del bis in idem internazionale sia stata accertata dall'autorità procedente nel corso del giudizio, non potrà pronunciarsi la sentenza finchè il Ministro della giustizia, informato di ciò, non proponga la prevista richiesta di rinnovamento del giudizio.

In entrambi i casi sopra indicati, qualora la richiesta ministeriale non intervenga entro un termine ragionevole, dovrà procedersi alla definizione del procedimento per improcedibilità, secondo le disposizioni applicabili in ragione della fase (decreto di archiviazione, sentenza ex artt. 129, 425 e 529 c.p.p.).

7. In considerazione delle conclusioni sopra esposte, il secondo e il terzo motivo di ricorso dell'imputato sono infondati, poichè denunciano che la richiesta ministeriale di rinnovamento del giudizio sia pervenuta tardivamente, mentre essa è intervenuta tempestivamente non appena il Pubblico ministero procedente, che ha rilevato il bis in idem, ha informato il Ministro della giustizia che, ancora prima della celebrazione dell'udienza preliminare, ha formulato la richiesta di procedimento, così rimuovendo l'ostacolo processuale alla celebrazione del giudizio e alla pronuncia della sentenza.

7.1. Sono, perciò, inconferenti gli argomenti difensivi incentrati sull'applicazione dei principi relativi all'estensione dell'estradizione (Sez. 1, n. 24893 del 27/05/2009, Adinolfi e altri, Rv. 243803; Sez. 1, n. 33741 del 07/07/2005, Argenti ed altri Rv. 232110) e quelli concernenti la richiesta ministeriale di cui agli artt. 8, 9 e 10 c.p., (Sez. 2, n. 47918 del 07/12/2011, Medici e altri, Rv. 252058).

8. Anche il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Brescia è infondato.

E', in effetti, destituita di fondamento la denuncia concernente l'errata determinazione della pena per illegittima esclusione della circostanza aggravante ad effetto speciale della premeditazione.

Detta circostanza aggravante, contrariamente a quanto asserito dal Pubblico ministero, non risulta contesta nè in fatto nè per mezzo dell'indicazione della norma (art. 577 c.p., comma 1, n. 3), tant'è vero che la Pubblica accusa, che non ha proceduto alla modifica dell'imputazione, non ne ha chiesto il riconoscimento neppure in sede di discussione del giudizio abbreviato e tanto meno in appello.

8.1. E', infine, meramente assertiva la denuncia che la contestazione dell'aggravante risulti dal contenuto dell'imputazione, perchè, a tacer del fatto che non è dato rinvenirsi nessun riferimento alla premeditazione e neppure a una certa preordinazione (sulla distinzione si veda: Sez. 1, n. 5147 del 14/07/2015, Scanni, Rv. 266205), non risulta contestata neppure l'aggravante del nesso teleologico tra la rapina e l'omicidio, sicchè risulta implicitamente smentita l'esistenza di una specifica progettualità dell'azione omicidiaria (elemento, peraltro, di per sè insufficiente a ravvisare la premeditazione, ma certamente suggestivo di una certa preordinazione; si veda Sez. 1, n. 3833 del 07/03/1994, Bonaccorsi, Rv. 196991).

9. Al rigetto del ricorso dell'imputato consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del medesimo al pagamento delle spese del procedimento.

9.1. L'imputato deve essere condannato, altresì, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Pu.Es., Pu.El., Z.A., Pe.Cr. e G.C., che si liquidano come indicato nel dispositivo in considerazione dello sforzo defensionale profuso.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali.

Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Pu.Es., Pu.El., Z.A. e Pe.Cr., che liquida in complessivi Euro 4.800, oltre spese generali, CPA e IVA, come per legge e a favore della parte civile G.C., che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre spese generali, CPA e IVA, come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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